Considerate sempre più dei partner, le società di servizi Ict puntano a fare sistema per integrare modelli e mantenere quote di mercato. Tra i maggiori driver per la scelta ci sono scalabilità, efficienza e capacità di innovare.
[auth href=”http://www.worldexcellence.it/registrazione/” text=”Per leggere l’intero articolo devi essere un utente registrato.
Clicca qui per registrarti gratis adesso o esegui il login per continuare.”]Le banche italiane vogliono puntare sull’innovazione e sull’Ict e indirizzano i propri investimenti su dematerializzazione, integrazione tra i sistemi, sicurezza dei canali remoti, automazione dei processi operativi, modernizzazione delle infrastrutture e iniziative di mobile banking e mobile payment. Sono questi alcuni dei dati emersi dall’undicesima edizione del rapporto sulle tendenze del mercato Ict per il settore bancario messo a punto da Abi Lab, il centro di ricerca e innovazione per la banca promosso dall’Abi. Ma per poter fare tutto questo, gli istituti di credito guardano al proprio interno oppure cercano di avvalersi di fornitori esterni, gli outsourcer, per poter stare al passo con la sfida tecnologica? Quali sono le funzioni che vengono maggiormente esternalizzate e quali vantaggi o criticità comportano? È a questi quesiti che hanno trovato risposta i relatori della tavola rotonda «Le nuove strategie di outsourcing nel settore finanziario», promossa da World Excellence e moderata dal direttore responsabile, Angela Maria Scullica. A intervenire al dibattito: Fabrizio Moneta, business development senior manager di Oracle Italia, Virginia Magliulo, amministratore delegato di Adp, Simone Cossu, direttore area informatica di Unione Fiduciaria, David Fernandez, direttore vendite mercato banche e assicurazioni di Business-e (consociata Itway Group) e Roberto De Flumeri, Bu Cfo pre-sales manager del gruppo Formula.
Banche e outsourcing: verso un cambiamento culturale. «Nel corso degli ultimi anni è cambiata la motivazione che spinge le banche a decidere di utilizzare servizi in outsourcing» spiega Simone Cossu. «Inizialmente erano motivi legati principalmente a riorganizzazioni, ottimizzazioni dei costi e difficoltà nel mantenere le divisioni It ad un livello adeguato, dal momento che l’innovazione tecnologica ha un costo elevato. Attualmente è emerso un fattore decisionale legato alle competenze: gli intermediari finanziari cercano di investire in servizi ed attività legate al proprio core business cercando di mantenere all’interno della propria struttura le relative competenze. Per tutti i servizi che non sono core, si cercano outsourcer in grado di fornire soluzioni a costi sostenibili, garantendo i requisiti di qualità necessari». Concorde Virginia Magliulo: «Le banche devono stare al passo con questa rivoluzione tecnologica, per questo in tutti i loro piani sono inclusi dei progetti di digitalizzazione e multicanalità, perché questo è il modo con cui possono e devono rimanere sul mercato. Da qui la propensione agli investimenti. Dall’altra parte, però, c’è la necessità di ridurre i costi, perché siamo in un periodo in cui le banche sono in difficoltà. In uno scenario di questo tipo, l’outsourcing viene utilizzato dalla banca come una modalità per liberare i capitali da reinvestire in progetti innovativi: da un lato controllo e riduco i costi, dall’altro ricavo un budget da reinvestire in un progetto innovativo che mi permetta di stare sul mercato. L’outsourcing diventa così un modo per accompagnare la banca in questo viaggio di compliance, riduzione dei costi, ma anche innovazione».
Agilità, scalabilità e nuovi modelli. In un contesto del genere emergono nuove declinazioni delle soluzioni di esternalizzazione. «Accanto a un concetto classico di outsourcing sui contratti di application management» afferma Roberto De Flumeri. «Noi applichiamo un concetto di sourcing strategico, grazie al quale forniamo competenze sui mercati internazionali per ciò che riguarda la comunicazione bancaria, l’incasso, i sistemi di pagamento e attraverso una nostra metodologia, che chiamiamo open net, realizziamo partnership con altre società che sono specializzate in una tecnologia, in modo da proporci a banche e finanziare in maniera completa, ma anche per formare internamente il loro personale nella gestione. In tal senso il digitale non è uno strumento, ma un modello organizzativo di un’azienda». Ed ecco che allora le richieste cambiano. «Gli elementi che cercano oggi le banche, quando scelgono l’outsourcing sono la scalabilità, l’agilità e la capacità di supportare la loro evoluzione nel tempo» precisa Magliulo. «Non è tanto saper vedere quello che sta accadendo adesso, quanto cercare di avere una visione prospettica: credo che l’abilità stia nel disegnare un percorso e non soltanto nel limitarsi al proprio ambito. A volte mi accade di incontrare aziende che vogliono un ritorno economico in un anno e mezzo, ma ce ne vogliono due e più. La capacità sta nel far capire che questo è un momento di ristrutturazione difficile e che in un contesto del genere trasformare un costo fisso in un costo variabile, che si può pagare a consumo, può essere molto interessante per le banche e in generale per le aziende. Mentre prima si parlava di costo, adesso c’è anche il concetto di variabilità, quindi pago solo per ciò che utilizzo». Anche secondo Fabrizio Moneta oggi le banche cercano soprattutto maggiore agilità. «Per loro è necessario coniugare un modello di outsourcing orientato a ridurre i costi e a ricavare quel budget cui accennava Virginia Magliulo, con un modello di IT orientato all’innovazione e alla reattività. Le banche cercano un modello di outsourcing nuovo nel quale poter mantenere un controllo maggiore sull’evoluzione dei processi e delle applicazioni, basato su piattaforme di servizio più flessibili. In questo nuovo scenario si aprono spazi per piattaforme tecnologiche di nuova generazione e su questo Oracle ha un ruolo di abilitatore, non solo per gli istituti bancari ma anche per gli outsourcer».
Sicurezza: la necessità di specializzarsi
Ci sono servizi a cui non si può prescindere e per i quali banche e istituti finanziari non possono ragionare in termini di contenimento dei costi. «Noi ci occupiamo di sicurezza informatica e siamo fortemente specializzati» dichiara David Fernandez. «Si è parlato di risparmio, ma io credo che data la complessità del comparto Ict, i driver per valutare l’economicità nella esternalizzazione di un servizio possono essere diversi, a partire dalle competenze. L’economicità di fatto non è soltanto un minore costo, ma significa massimizzare l’utilità della funzione che s’intende esternalizzare. Lavoriamo in un contesto particolarmente dinamico e complesso come quello della sicurezza. Gli attacchi informatici crescono e si evolvono in modo vertiginoso, ed è estremamente oneroso e complicato per un’organizzazione adeguarsi a questa esigenza. Infatti questo tipo di adeguamento richiederebbe azioni asincrone rispetto a tutte le altre funzioni aziendali, e in ogni caso non sarebbe possibile colmare questo gap soltanto con un piano di formazione interno dato che l’efficacia nel contrastare questi attacchi è direttamente proporzionale all’esperienza realizzata direttamente sul campo».
La scelta dell’outsourcer, globale o locale? Date per assodate esigenze e competenze, quali sono i driver che spingono le banche verso un outsourcer piuttosto che un altro? E quanto conta essere un player internazionale oppure una realtà radicata sul territorio che conosce le diverse sfaccettature del “sistema Italia”? «La scelta di un partner, che sia locale o internazionale, che dia una suite di crescita futura in base a come la banca si vuole muovere, deve essere uno dei criteri-guida» dice De Flumeri. «Quando si tratta di scegliere, non è mai il prezzo, ma la paura di sbagliare fornitore ad essere determinante». «L’offerta di outsourcing oggi è molto variegata e va dal grande outsourcer che gestisce in toto l’IT della banca, all’outsourcer specializzato in aree applicative “mainstream”, passando da una serie sempre più ricca di service provider SaaS che forniscono l’eccellenza applicativa in aree molto specifiche» aggiunge Moneta. «Tutto questo secondo noi apre nuovi scenari per la banca che oggi ha accesso ad un’offerta più ampia rispetto al passato, ma anche a modelli di sourcing più agili con vincoli all’uscita più semplici da gestire. Per le aziende “globali” come Oracle, questo nuovo scenario è sicuramente una grande opportunità di lavoro: i progetti importanti di revisione dell’IT non hanno più il solo obiettivo di ridurre i costi, ma anche di fare innovazione e vedono infatti sempre più spesso coinvolti brand globali, che facciano economia di scala e capitalizzino nei prodotti esperienze da tutto il mondo. Il global partner che ha una visione complessiva è l’elemento chiave, ma dietro di lui il vendor unico non è più la risposta: la collaborazione tra fornitori IT diversi è centrale e sta diventando una questione di sopravvivenza per i fornitori stessi». Diverso il caso di Unione Fiduciaria, realtà italiana che conosce bene le dinamiche del nostro Paese. «La nostra area Informatica si trova a competere con outsourcer internazionali e globali presenti nel mercato nazionale, dove la localizzazione del servizio è elemento fondamentale» precisa Cossu. «I principali driver sui quali noi siamo in grado di fare la differenza sono la qualità e la flessibilità dei nostri servizi, oltre ad una capacità intrinseca di fare innovazione, anche rispetto ad una concorrenza che offre delle economie di scala globali. La tendenza normativa dell’ultimo decennio è stata quella di aprire il mercato agli operatori esteri, senza un adeguato sistema protezionistico delle economie locali: ecco perché assistiamo spesso alla migrazione dei nostri clienti verso gli outsourcer internazionali. Capita in alcuni casi che tornino sui propri passi a causa della mancanza di un adeguato livello di qualità e flessibilità, tale da non giustificare costi inferiori».
Criticità del mercato italiano. L’esigenza per le banche di un fornitore che conosca bene le dinamiche burocratiche e normative italiane risulta effettivamente cruciale, considerando difficoltà e condizionamenti che il nostro Paese ha anche in materia di esternalizzazione dei servizi. «In Italia ci sono diversi limiti su tutto quello che è outsourcing, a causa delle ultime leggi e per la vigilanza della Banca d’Italia» specifica De Flumeri. «E questo incide sulla crescita, soprattutto se le banche sono piccole e medie, perché non possono esternalizzare tutto. Banca d’Italia diceva che per dare il sourcing è importante la continuità lavorativa e la intendeva come controllo, responsabilità e conoscenza interna. Bisogna rivedere quella definizione di continuità operativa». «Dal punto di vista degli applicativi software in ambito internazionale, la tendenza delle banche è quella di utilizzare sistemi maggiormente integrati e modulari rispetto a quelli utilizzati dagli istituti italiani» aggiunge Cossu. «Per una banca italiana cambiare sistema di banking significa dover modificare un’architettura IT molto complessa con rischi considerati troppo elevati rispetto ai benefici stimati. Conseguentemente, negli ultimi dieci anni anche gli investimenti software sono stati concentrati prevalentemente sui servizi web direttamente fruibili dal cliente finale piuttosto che alle architetture e ai sistemi di back end». Il rapporto con l’estero può essere concepito non solo in termini di ispirazione e confronto, ma anche concretamente di business. «Spesso si parla di internalizzazione come un’opportunità per l’outsourcing. Si potrebbe anche dire che l’outsourcing diventa un’opportunità per l’internalizzazione» rilancia Fernandez. «Il processo di esternalizzazione permette di razionalizzare gli investimenti e indirizzare e concentrare tutti gli sforzi sul proprio core business e quindi poter aggredire e conquistare nuovi mercati. Per quanto ci riguarda più clienti ci chiedono questi servizi più siamo in grado di rispondere con un’offerta competitiva tramite l’attivazione di economie di scala. Quindi diventa un circolo virtuoso che rappresenta sicuramente un’opportunità per il sistema Italia».
Il rapporto con le banche: da commodity a partner. Un altro elemento critico da considerare per è la percezione del cliente, banca o azienda che sia. Per chi fa outsourcing è cruciale sapere se si viene considerati come una semplice commodity, ossia come un costo operativo, oppure come un partner sul quale investire per fare innovazione. «Innanzitutto dobbiamo riuscire a garantire tanta qualità restando nel contempo competitivi» suggerisce Magliulo. «L’unico modo per riuscirci è unire al discorso della commodity quello del valore aggiunto, inteso come innovazione e integrazione. Bisogna innovare, ma se non riusciamo ad integrare non riusciamo a fornire il servizio al cliente e ad essere percepiti come un partner a tutti gli effetti. Lo sprone deve venire anche da noi e non solo dal cliente». «Dare valore aggiunto ad alto impatto nell’ambito del core business della banca è fondamentale» concorda Cossu. «Il rapporto sta fortemente cambiando, passando da un ruolo di semplice fornitore di servizi ad una forma di stretta partnership per lo sviluppo del business». Il principale referente dell’outsourcer oggi non è più solo la divisione IT interna all’istituto bancario, ma la sua area commerciale e marketing o il centro servizi.
Fare sistema e nuovi talenti le sfide per il futuro. Quali sono allora le sfide da affrontare? Su tutte emerge la necessità di “fare sistema” e di trovare servizi che si possano integrare e talenti in grado di sviluppare soluzioni sempre nuove e all’avanguardia. «La prima sfida è trovare un modello che permetta di creare tra banca ed outsourcer una guida a quattro mani su processi ed applicazioni per fare co-gestione evolutiva, il che richiede una maggiore agilità interna e tecnologie più innovative» spiega Moneta. «Il secondo aspetto, che riguarda l’ecosistema dei fornitori, è evolvere verso un nuovo paradigma. L’offerta globale è sempre più dinamica, moderna, competente, per cui avere un approccio collaborativo con gli altri service providers diventa indispensabile per offrire alla banca una catena estesa di servizi eterogenei. Crediamo che gli istituti bancari abbiano bisogno di questo modello di outsourcing federato: la spinta a differenziarsi è molto forte e lo sarà sempre di più. In questo scenario le aziende It saranno più propositive perché lavoreranno tutte sull’extra valore». «Dal nostro punto di vista, per ottenere questi obiettivi è necessario continuare ad accrescere le competenze interne e sviluppare innovazione» aggiunge Cossu. «Si tratta di competenze di tipo interdisciplinare, non solo tecniche, ma anche di gestione di progetti complessi, in modo da sviluppare contemporaneamente anche la capacità di fare sistema con aziende che offrono servizi complementari ai nostri ed essere sempre più incisivi sul mercato». «A mio avviso la risposta deve essere più specializzazione» è il commento di Fernandez. «Per garantire i propri clienti bisogna investire ulteriormente in tecnologie e competenze. Nell’ultimo triennio siamo cresciuti annualmente di circa il 15-20% e l’80% di questa crescita è data dai servizi di sicurezza gestiti. Le minacce crescono e diventano più complesse, solo una società che ha come core business la sicurezza può rispondere con efficacia ed efficienza alle sfide che abbiamo davanti». «Per quanto riguarda noi» aggiunge De Flumeri «abbiamo avviato da due anni degli open network, che applicano lo stesso principio di cui si parlava prima, ossia di trovare collaborazione e specializzazione per fare un’offerta di co-sourcing strategico. In questo caso per noi è fondamentale il lato della comunicazione bancaria, quello che è cresciuto di più negli ultimi mesi, e vediamo che i mercati esteri possono essere una nuova leva. In generale non conviene farsi la guerra, ma allearsi, ed è quello che sta avvenendo ad esempio con la creazione del consorzio sul blockchain, che avvia molta disintermediazione. Non va infine dimenticato che il futuro del sourcing risiede nella formazione del persanale». Pienamente d’accordo Virginia Magliulo: «Gli outsourcers si devono parlare, devono scambiarsi le informazioni e quindi quello dell’efficienza diventa uno snodo cruciale. Il cliente deve porsi un disegno finale che sia governabile, sia con dei tool sia con l’organizzazione dei processi. Noi poi ci occupiamo anche dell’area del talent manager, Hr, formazione e vedo nelle banche una fortissima ricerca tesa a trovare il modo per far crescere i talenti, ma occorre fare ancora più investimenti in questo settore e introdurre, anche nell’ambito di gestione delle risorse umane, il social. Se non siamo in grado di mantenere e di accaparrarci i migliori talenti sul mercato, la nostra vita come outsourcer, e non solo, sarà breve».
Alessia Liparoti
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