I dubbi di un mondo in affanno

L’autunno si apre con una serie di pesanti interrogativi che non trovano facili risposte. La situazione in Medioriente e la stretta interconnessione delle economie lasciano aperti molti fronti

L’autunno si apre su uno scenario in cui i dubbi in molti campi, dalla politica all’economia,  prevalgono sulle certezze.
[auth href=”http://www.worldexcellence.it/registrazione/” text=”Per leggere l’intero articolo devi essere un utente registrato.
Clicca qui per registrarti gratis adesso o esegui il login per continuare.”]Per esempio, quanto durerà ancora la crisi siriana e a che prezzo per la popolazione? E ancora, che cosa deve aspettarsi la Turchia di Erdogan dopo la soppressione della libertà di stampa, le epurazioni, gli arresti e migliaia di incarcerazioni? Che farà l’europa dopo Brexit e la Germania dopo l’affermazione dell’ultradestra in Meclemburgo? E c’è almeno una possibilità che quest’anno il nostro Pil riesca a guadagnare qualche punto percentuale e che si arrivi al referendum senza risse tra i partiti? Rispondere è difficile, bastano le domande per sottolineare la complessità dei problemi in essere e le poche probabilità che ci sono per risolverli.
Nel mondo economico uno degli ultimi rebus riguarda l’oro, cresciuto del 28% dal 1° gennaio e  improvvisamente calato dell’1,7% nella prima settimana di agosto mentre la sua ascesa sembrava inarrestabile. Da che cosa è stato originato il deprezzamento? A chi ne ha cercato le cause, si offrono almeno due spiegazioni. La prima è che in quei giorni gli Stati Uniti hanno annunciato, spiazzando gli analisti, che l’occupazione aveva ripreso a crescere, tanto che a luglio si erano creati 255 mila nuovi posti di lavoro. Così, mentre Wall Street stabiliva un record, l’oro cedeva in conseguenza del timore che la Fed, la Federal Riserve americana, visti i risultati economici e occupazionali, accelerasse il rialzo dei tassi, rafforzando il dollaro e rendendo altri investimenti più competitivi dell’oro. La seconda spiegazione è invece legata al fatto che Cina e India hanno ridotto (e ridurranno ancora) gli acquisti di oro, del quale sono i maggiori compratori. La sola Cina, in 12 mesi, ha speso il 24,1% in meno e nel secondo trimestre 2016 addirittura un -36% rispetto al trimestre precedente.
Ora il rischio di altri deprezzamenti sembra scongiurato. Soprattutto perché il World gold council (Wgc) si è impegnato molto a sostegno dell’oro, promuovendolo come forma di garanzia in caso di investimenti rischiosi. L’oro, sostiene il Wgc, agisce come una specie di assicurazione, serve a controbilanciare gli investimenti a rischio e costituisce una sicurezza grazie a un prezzo sostanzialmente stabile, se non in crescita. Un’altra mossa positiva del Wgc è stata poi quella di fare incetta di oro anche se in modo indiretto: in sette mesi infatti gli Exchange trade funds, fondi specializzati in investimenti sul metallo prezioso, e lo Sprd gold trust fund, legato al Wgc hanno immesso nelle proprie riserve circa 630 tonnellate di lingotti.
Preoccupa anche il mercato dei bond. Obbligazioni e titoli pubblici costituiscono una grande fonte di ricchezza, tuttavia 11 mila miliardi di dollari di titoli (una somma con 12 zeri, a seguire le prime due cifre) offrono oggi un rendimento negativo. Nonostante questo un buon numero di grandi investitori globali continua ad acquistare bond puntando su un ulteriore ribasso dei tassi: in pratica, se i tassi scenderanno ancora, come credono costoro, vendendo i bond realizzeranno un profitto. Perché in conto capitale il valore è inversamente proporzionale al rendimento dei bond,e se i tassi diventeranno più negativi i bond varranno di più. Una speculazione ad alto rischio e che può riservare brutte sorprese: se al contrario di quanto hanno previsto i tassi dovessero crescere invece di scendere, il conto capitale degli investitori potrebbe subire grosse perdite.
Sul tavolo della finanza c’è anche la questione dei derivati. Una ricerca di Mediobanca ha rilevato che a fine 2015 il valore a prezzo di mercato dei derivati presenti nelle maggiori banche europee era di 4.300 miliardi e superava di tre volte e mezzo il patrimonio degli istituti. Deutsche Bank, Bnp Paribas e Barclays sono in testa alla classifica delle banche più esposte per un valore di 450-500 miliardi ciascuna, mentre in Italia sia Unicredit sia Intesa hanno una esposizione di circa 75 miliardi. Ma le regole di Basilea 3 hanno introdotto un nuovo limite al leverage ratio, stabilendo che il rapporto tra capitale e attivi non potrà essere inferiore al 3% e, anche se questa norma non entrerà in vigore prima del 2018, è ormai chiaro che i nuovi requisiti regolatori intendono porre dei limiti alle attività finanziarie dei grandi gruppi bancari come a quelle degli istituti di medie o piccole dimensioni.
Così nei paesi europei i portafogli dei derivati si sono contratti nel corso del 2015, con un –30% rispetto al 2014. Credit Suisse, per esempio, ha ridotto del 57% il valore dei derivati che deteneva e Ubs ha fatto lo stesso per un valore del 34%. I regolatori svizzeri, degli Stati Uniti e del Regno Unito hanno tra l’altro deciso di adottare misure ancora più pesanti rispetto a quelle previste da Basilea 3 per scongiurare i rischi di credito e di mercato che, solo quattro anni fa, hanno provocato perdite di 12 miliardi per la banca americana JP Morgan.
Nel 2016 è però la Deutsche Bank, una delle maggiori banche tedesche, a preoccupare gli osservatori internazionali per il suo portafogli di derivati, come ha ammesso il Fondo monetario internazionale (Fmi) sostenendo addirittura che «Deutsche Bank sembra essere la banca che contribuisce di più al rischio sistemico», anche in considerazione della sua attività e dei suoi interessi internazionali. Così, a fine luglio, Matteo Renzi ha potuto commentare: «La vera questione sulla finanza europea non sono i non performing loans italiani ma i derivati di altre banche».
Un’opinione che non sembra condivisa da Giuseppe Vita, presidente di Unicredit, che ha sostenuto: «Abbiamo davanti una serie di dossier da risolvere. La matrice comune è la quantità di crediti in sofferenza delle banche italiane, che credo sia meglio risolvere con l’intervento dello stato». Vita ha poi spiegato che, secondo lui, il crollo delle quotazioni bancarie in Borsa: «Non è legato al fatto che le banche generano meno utili: ma al fatto che molti investitori internazionali puntano su altri settori più remunerativi. Qui il ruolo dei regolatori è fondamentale: non si capisce a cosa serve l’enorme liquidità che la Bce cerca di far giungere ai cittadini, se poi regole sempre più stringenti rendono nei fatti più difficile il sostegno delle banche all’economia». Sarà quindi compito del nuovo amministratore delegato di Unicredit, il francese Jean Pierre Mustier, spiegare al proprio presidente come dovrebbe funzionare il meccanismo di finanziamento all’economia reale da parte degli istituti di credito.
Riguardo al lavoro le preroccupazioni in Italia continuano restare elevate. In agosto l’Istat, con il rilevamento riferito al secondo trimestre 2016 ha denunciato la crescita zero del Pil ed il calo di fiducia delle imprese e dei consumatori. Dal canto suo l’Eurostat avverte che nei primi tre mesi del 2016 l’Italia ha toccato il 37% di disoccupati scoraggiati (+53.000), cioè coloro che il lavoro non lo cercano neanche più e che nelle statistiche vengono definiti “inattivi”, un dato percentuale che è il doppio della media europea. Così per ridurre il tasso di disoccupazione, che secondo l’Istat è dell’11,6%, e sostituire il bonus assunzioni che decade, il ministro del Lavoro e dello sviluppo Giuliano Poletti, propone il taglio strutturale permanente del costo del lavoro.
Nelle rilevazioni dell’Ocse l’Italia occupa il quarto posto, in una classifica che prende in esame 34 paesi quanto a peso delle tasse e contributi sui lavoratori dipendenti che da noi è pari al 49%, con una crescita percentuale dello 0,76 nel 2015 rispetto alla media Ocse che è del 35,9%.
Al responsabile dell’Economia Pietro Carlo Padoan detto Pier Carlo tocca far luce sullo stato dell’arte così, dopo aver assicurato che rispetto al Pil il deficit continuerà a scendere, sostiene: «Non penso ci sia una stagnazione secolare, ma credo ci siano i sintomi di un malessere profondo: tutto questo però non deve essere causa di rinuncia e di pessimismo». Il ministro, che un tempo criticava da sinistra le teorie keynesiane, ora respinge anche quelle sulla stagnazione nate con la scuola austriaca degli Anni Trenta e riprese recentemente dall’americano Larry Summers, però a Bratislava, al vertice europeo di metà settembre ha proposto un fondo comune da 50 miliardi per aiutare a superare crisi economica e aumento della disoccupazione. Il progetto,chiamato “Fondo europeo per l’indennità di disoccupazione”, prevede che gli stati membri versino lo 0,5 del Pil creando così una risorsa per i paesi in cui l’occupazione cali di più di un punto percentuale rispetto alla media europea.
Sono anche troppi i paesi che devono affrontare la crisi del lavoro e in cui aumenta il divario tra ricchi e poveri come al G20 di Pechino, a settembre, ha rilevato Christine Lagarde, direttore del Fmi, parlando di un ristagno dell’economia mondiale che provoca disuguaglianze sociali sempre più evidenti e un impoverimento del ceto medio in tutti i paesi occidentali, dove «Il pendolo politico oscilla in direzione contraria ai mercati aperti».
Al vertice cinese si è parlato apertamente di stagnazione, al contrario di quanto sostiene il ministro Padoan, anzi, la mancata ripresa economica è stato il tema centrale, in cui il Fondo monetario internazionale ha abbassato le stime della crescita mondiale dal 3,6% al 2,9% e ha avanzato l’ipotesi di un “rischio di stallo” rilevando come siano in recessione anche Brasile, Nigeria, Russia, Sudafrica, quelle che un tempo venivano indicate come le locomotive economiche.
Anche dall’Ocse sono venuti segnali negativi e a Pechino il responsabile dell’organizzazione, Angel Gurria, ha spiegato che anche la politica monetaria, unico strumento fin qui utilizzato per fronteggiare la congiuntura, non può tirate avanti così: «Le banche centrali, per stimolare l’economia, sono vicine al limite delle loro possibilità», ha detto Gurria. Gli estemporanei tentativi di questi ultimi otto anni, dallo stimolo dei tassi zero alla creazione massiccia di liquidità, agli enormi acquisti di bond agli aiuti miliardari alle banche sono dunque serviti a poco o nulla. L’economia occidentale non riesce proprio a riprendersi, tanto che per l’anno in corso le stime del Pil sono state riviste al ribasso in tutta la zona euro.
Dal suo canto la Cina, dov’è probabilmente è finita la corsa del Pil nonostante una crescita stimata del 6,6% nel 2016, ha chiesto che nel documento finale, a conclusione del G20, sia inserito il tema della sovra-capacità nel settore dell’acciaio dove la metà della produzione mondiale è cinese ma trova sbocchi sempre più ridotti sui mercati stranieri, in cui sta crescendo il protezionismo. La repubblica popolare, inoltre, è intimorita dall’indebolimento della sterlina (il Regno Unito è il più importante cliente europeo per l’export cinese), e segue con apprensione la campagna presidenziale americana perché Donald Trump, candidato del partito repubblicano, propone di applicare un dazio del 45% sui prodotti che vengono dalla Cina che comunque continua ad espandere in Occidente i propri interessi, soprattutto commerciali, puntando su una varietà di settori tra cui lo sport,come dimostrano le recenti acquisizioni di proprietà dell’Inter e del Milan, le due squadre di calcio milanesi.
Il discorso però cambia quando si fa riferimento agli investimenti stranieri in Cina. La Camera di commercio dell’Ue a Pechino, che rappresenta tutte le aziende europee presenti sul mercato cinese, proprio in settembre ha denunciato il continuo protezionismo del governo cinese nel confronto delle aziende nazionali. Il premier Li Keqiang infatti ha dato il via a una serie di provvedimenti restrittivi nei confronti delle multinazionali straniere, accusate di frode, truffa, di avere assunto una posizione dominante sul mercato cinese o addirittura, con i loro terzisti, di violare i diritti dei lavoratori. Un cambiamento radicale rispetto ai tempi in cui gli investitori trovavano in Cina bassi costi, infrastrutture avanzate, mercato in crescita e ampi margini di guadagno.
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