Il fattore timore nei mercati globali. L'analisi di Kenneth Rogoff, Professore di Economia all'Università di Harvard

CAMBRIDGE – La fenomenale volatilità del mercato dello scorso anno deve molto ai rischi reali e alle incertezze su fattori come la crescita cinese, le banche europee e l’eccesso di petrolio. Per i primi due mesi di quest’anno, molti investitori temevano che anche gli Stati Uniti, la storia di crescita più incoraggiante del mondo, stavano per cadere in recessione. Infatti, tra gli esperti che partecipano al sondaggio mensile del Wall Street Journal, il 21% ritiene che una recessione è dietro l’angolo.

[auth href=”http://www.worldexcellence.it/registrazione/” text=”Per leggere l’intero articolo devi essere un utente registrato.
Clicca qui per registrarti gratis adesso o esegui il login per continuare.”]Non nego che ci sono dei rischi. Una crescita abbastanza grande della Cina o del sistema finanziario europeo potrebbe certamente far pendere l’economia globale dalla crescita lenta alla recessione. Un pensiero ancora più spaventoso è che il prossimo anno nello stesso periodo, la presidenza degli Stati Uniti potrebbe trasformarsi in un reality show televisivo.

Tuttavia, da un punto di vista macroeconomico, i fondamentali non sono così male. I dati sull’ occupazione sono stati positivi, la fiducia dei consumatori è solida e il settore petrolifero non è abbastanza grande rispetto al Pil perché il crollo dei prezzi porti l’economia degli Stati Uniti in ginocchio. Infatti, il driver della fiducia dei mercati più sottovalutato in questo momento è la paura di un’altra crisi enorme.

Ci sono alcune analogie tra il disagio di oggi e la fiducia del mercato nel decennio successivo alla seconda guerra mondiale. In entrambi i casi, vi era una domanda smisurata per le attività sicure. (Naturalmente, la repressione finanziaria ha svolto un ruolo importante dopo la guerra, con i governi che hanno manipolato il debito degli investitori privati a tassi di interesse al di sotto del mercato).

Anche un intero decennio dopo la seconda guerra mondiale, quando il famoso economista John Kenneth Galbraith ha rilevato che il mondo potrebbe sperimentare un’altra depressione, i mercati sono andati nel pallone. La gente ancora ricorda come il mercato azionario degli Stati Uniti sia sceso del 90% durante i primi anni della Grande Depressione. Già nel 1950, non era difficile immaginare che le cose potevano andare male di nuovo. Dopo tutto, il mondo aveva appena attraversato una serie di catastrofi, tra cui le due guerre mondiali, un’epidemia globale e naturalmente la depressione stessa. Sessanta anni fa, lo spettro della guerra atomica sembrava anche fin troppo reale.

La gente oggi non ha bisogno di ricordare di quanto e quanto velocemente i mercati azionari possono scendere. Dopo la crisi finanziaria del 2008, i listini statunitensi sono scesi di oltre il 50%. I mercati azionari in altri paesi hanno subito un calo significativo: quelli dell’Islanda, per esempio, sono crollati di oltre il 90%. Non c’è da stupirsi che una volta che il recente calo del mercato ha raggiunto il 20%, molte persone si sono chieste quanto potesse andare peggio – e se i timori di una nuova recessione potessero diventare una profezia autoavverante.

L’idea è che gli investitori diventano così preoccupati per una recessione e che i listini scendano così tanto, che questa poca fiducia si riflette nell’economia reale attraverso i tagli alla spesa, dando origine al temuto calo. Potrebbero avere ragione, anche se i mercati sopravvalutano la propria influenza sull’economia reale.

D’altra parte, il fatto che gli Stati Uniti sono riusciti ad andare avanti nonostante le turbolenze globali suggerisce che la domanda interna è robusta. Ma questo non sembra impressionare i mercati. Anche quegli investitori che restano cautamente ottimisti circa l’economia degli Stati Uniti si preoccupano che la Federal Reserve consideri la crescita come un motivo per continuare ad alzare i tassi di interesse, creando enormi problemi per le economie emergenti.

Ci sono altre spiegazioni in merito alla volatilità, oltre alla paura, naturalmente. La più semplice è che le cose vanno davvero così male. Forse i singoli rischi non hanno la stessa portata di quelli del 1950, ma ce ne sono di più e i mercati si muovono da una posizione molto più inflazionata.

Inoltre, la globalizzazione finanziaria ha profondamente peggiorato le correlazioni, amplificando la trasmissione di shock. C’è un’enorme fragilità e debolezza nei mercati del debito mondiale, con un corrente allentamento monetario che maschera problemi profondamente radicati sotto la superficie. Alcuni hanno indicato una mancanza di liquidità nei principali mercati come fattore guida delle enormi oscillazioni dei prezzi; in un piccolo mercato, una piccola variazione della domanda o dell’offerta a volte può richiedere un grande cambiamento dei prezzi per ristabilire l’equilibrio.

La spiegazione più convincente, però, è ancora che i mercati hanno paura che quando emergono i rischi esterni, i politici e i policymaker saranno inefficaci a confronto. Di tutte le debolezze messe in luce dalla crisi finanziaria, la paralisi politica è stata la più profonda.

Alcuni dicono che i governi non hanno fatto abbastanza per alimentare la domanda. Anche se ciò è vero, non dipende solo da questo. Il problema più grande che grava sul mondo di oggi è il misero fallimento della maggior parte dei paesi ad attuare le riforme strutturali. Con la crescita della produttività, temporaneamente bloccata, e la popolazione mondiale in declino a lungo termine, il lato dell’offerta, non la mancanza di domanda, è il vero vincolo nelle economie avanzate.

Nel lungo periodo, è l’offerta che determina la crescita di un paese. E se i paesi non riescono a gestire le riforme strutturali profonde dopo una crisi, è difficile vedere cosa accadrà. Gestire un governo come se fosse un reality show, con un occhio sempre sulle valutazioni, non è il modo migliore di agire.

@Project Syndicate

 
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