La fine del salotto buono

L’addio di Bolloré al patto di sindacato lascia per la prima volta piazzetta Cuccia senza blocco di controllo dopo 60 anni.

L’addio di Bolloré al patto di sindacato lascia per la prima volta piazzetta Cuccia senza blocco di controllo dopo 60 anni. Sul tavolo del cda due ipotesi: accordo leggero, se Unicredit resta nella squadra, o trasformazione in public company, come previsto dallo statuto. Sullo fondo, però, c’è anche la partita di Generali, dove Caltagirone continua a crescere.

Si scioglie dopo oltre 60 anni, perlomeno nella formula attuale, il patto di sindacato di Mediobanca, l’ultimo salotto buono della finanza italiana che blindava il capitale di piazzetta Cuccia dal 1956 e, indirettamente, anche quello del suo asset più pregiato, le Generali.

Ma se tutti guardavano all’Unicredit di Jean-Pierre Mustier, primo socio di Mediobanca, la sorpresa è arrivata da un altro francese, Vincent Bolloré, che a fine settembre ha inviato la lettera di disdetta anticipata, con efficacia dal prossimo primo gennaio, della sua Financière du Perguet, titolare del 7,86% della banca. Con la mossa del finanziere bretone, che resta comunque ancora azionista, di fatto viene meno il patto, poiché i rappresentanti scenderanno a meno del 25% del capitale, soglia sotto la quale è prevista la decadenza automatica dell’accordo parasociale. Sfruttando la possibilità di dare disdetta anticipata entro fi ne mese, già la Italmobiliare della famiglia Pesenti aveva comunicato di svincolare il suo 0,98% legato al patto. Sommato al 7,9% di Bolloré, la quota totale sindacata scende così al 19,6% circa dal precedente 28,5%.

Il nocciolo duro. La storia del nocciolo duro di piazzetta Cuccia corre parallela all’evoluzione del sistema bancario e industriale italiano, di cui ha condiviso le lotte per il potere, gli scontri e i misteri. È il 1946 quando le tre banche di interesse nazionale (Bin) controllate dall’Iri costituiscono Mediobanca: Banca Commerciale Italiana 35%, Credito Italiano 35% e Banco di Roma 30%.

L’idea dei fondatori, Raffaele Mattioli ed Enrico Cuccia, è di dare vita a un grande istituto che possa supportare la ricostruzione italiana dopo la guerra. Dieci anni più tardi arriva la quotazione alla Borsa di Milano e la quota di azioni vincolate in mano alle tre banche si riduce al 75%. Il 1958 è l’anno del primo patto di sindacato: le tre Bin (con il 51%), quattro banche estere (Lazard, Lehman Brothers, Berliner Handels Gesellschaft, Sofina) e un investitore privato italiano (Pirelli) vincolano complessivamente il 55% circa del capitale. Mediobanca sotto la guida di Cuccia, sempre fedele alla massima «le azioni non si contano, si pesano», diventa il centro del mondo finanziario e politico italiano e gestisce grandi transazioni economico-finanziarie, una tra tutte la scalata alla Montedison da parte dell’Eni.

La privatizzazione. Non mancano capitoli misteriosi, come quello legato al banchiere Michele Sindona e alla morte dell’avvocato Giorgio Ambrosoli, con lo stesso Cuccia che raccontò agli inquirenti milanesi di aver avuto notizia del progetto di «fare scomparire» il liquidatore della Banca Privata Italiana. Per arrivare alla privatizzazione di Mediobanca devono passare tre decenni. Nel 1988 le tre banche di interesse nazionale cedono il 32% del capitale riducendo la propria quota al 25% (Banca Commerciale 8,8%, Credito Italiano 8,8% e Banca di Roma 7,4%). Una quota del 25% viene vincolata da investitori privati. Interviene il gotha dell’industria italiana: Generali, Fiat, Pirelli, Ras, Olivetti, Pecci, Cir, Italcementi, La Fondiaria, Lazard, Sai, Bhf Bank, Marzotto, Stefanel, Cerutti, Ferrero. L’accordo controlla in questo modo il 50% del capitale e continuerà a farlo negli anni successivi, con vari cambiamenti dovuti alle privatizzazioni degli istituti del gruppo Iri e all’ingresso di nuovi soci, tra cui il gruppo Bolloré.

L’ascesa di Bolloré. Il finanziere bretone fi gura ufficialmente negli annali del patto Mediobanca dal 2001, tramite una quota in Consortium. Nel 2003 ha il 5% nell’accordo di sindacato che allora vincolava il 57% del capitale della banca, con la Financière du Perguet e assieme a Groupama, Dassault e Santander costituiva il Gruppo C degli azionisti esteri, detentore di poco meno del 10% del capitale della banca. Il gruppo inizia a sfaldarsi con l’uscita in anni successivi dei soci. Da Fiat a Telecom fi no a Dassault. Tutti man mano si sfilano, tranne Bolloré, che continuerà in assolo la sua permanenza in Mediobanca, aumentando la quota fino a diventare il secondo socio, dietro a Unicredit, con l’8% circa. «Siamo qui per il lungo termine», ripeterà più volte fin dagli esordi il patron del gruppo francese. «Mediobanca è una finestra sul capitalismo italiano. È strategica, non è solo una banca, ma una holding di partecipazioni», spiegherà.

Nel 2002, intanto, missione compiuta con Antoine Bernheim, nuovamente installato alla presidenza di Generali. Otto anni dopo, tuttavia, nel 2010 l’anziano banchiere parigino, che griderà al tradimento, sarà sostituito da Cesare Geronzi, mentre a Bolloré va la vicepresidenza del Le-one, gruppo di cui detiene tuttora lo 0,13% del capitale. Nel 2012, dovendo scegliere in base alla nuova normativa italiana sui doppi incarichi, tra il posto in cda in Mediobanca, dove sedeva da un decennio, e quello a Trieste, opta per quest’ultimo e nel board di piazzetta Cuccia dal 2014 siede la figlia Marie, allora 26enne. Bolloré lascia a fine 2013 anche il cda Generali e al suo posto va Jean-René Fourtou, allora presidente di Vivendi. Per il gruppo Bolloré è, infatti, iniziata la partita Vivendi, che lo ha portato a essere, oltre al primo azionista del gruppo francese dei media, anche il primo azionista di Telecom Italia, con il 23,9% e il secondo azionista di Mediaset con il 28,8%. Due dossier assai intricati per Vivendi, dove il gruppo Bolloré si è progressivamente rafforzato fino all’attuale 26,2% (gli ultimi acquisti sono dei giorni scorsi), con uno shopping miliardario.

Il prossimo board. Il cda nominato nel 2017 è l’ultimo proposto dal patto di sindacato e, in base alle nuove norme statutarie, il prossimo board, che verrà nominato nel 2020, sarà proposto dal consiglio uscente. Tra i principali partecipanti restano oggi Unicredit, Mediolanum, Edizione/ Benetton, Fin.Priv e Fininvest. La società del gruppo Bolloré ha precisato di voler «mantenere in portafoglio la partecipazione (che vale circa 700 milioni, ndr), seppur al di fuori dell’accordo» parasociale, e ha espresso «soddisfazione per gli eccellenti risultati conseguiti dal gruppo Mediobanca, convinto sostegno all’attuale strategia e pieno supporto al suo management». Ma la sostanza non cambia. L’assemblea del patto del 27 settembre, che ha visto la partecipazione di Marie Bolloré e di Valerie Hortefeux (l’altra rappresentante del gruppo nel cda di Mediobanca,), ha affidato al comitato il compito di sondare l’interesse dei partecipanti «a individuare alternative alla mera decadenza a fi ne anno dell’attuale accordo».

Due scenari. In questi tre mesi i soci valuteranno se fare un patto più leggero o no. Due gli scenari che ora si aprono: la creazione di un patto light che accompagnerà la banca fi no al 2020, anno in cui è previsto il passaggio alla nuova governance con l’indicazione della lista del cda da parte del board uscente. Oppure, dal prossimo gennaio non ci sarà più alcun accordo parasociale e Mediobanca diverrà a tutti gli effetti subito una public company, accelerando il percorso già da tempo intrapreso. Cruciale per la percorribilità dell’ipotesi di un patto leggero sarà l’atteggiamento di Unicredit, visto che senza la partecipazione dell’istituto guidato da Mustier la quota sindacabile scenderebbe a circa l’11,2%, livello da molti considerato troppo basso per giustifi care una simile operazione. Si attende quindi l’esito delle consultazioni tra i soci, che verrà portato all’attenzione di una nuova riunione dell’assemblea del patto da convocare entro fine anno. In ogni caso, si fa notare negli ambienti finanziari, sul fronte della governance lo scioglimento del patto di sindacato avrebbe impatti minimi. «Noi siamo pronti su entrambi gli scenari ed entrambi gli scenari ci trovano preparati», aveva dichiarato lo scorso maggio l’ad Alberto Nagel, commentando la possibilità di uno scioglimento anticipato del patto rispetto alla scadenza naturale di fine 2019.

Il patto leggero. Per Ennio Doris, azionista di Mediobanca attraverso Mediolanum e partecipante al patto di sindacato di piazzetta Cuccia, la soluzione migliore sarebbe quella di un accordo tra i soci nella forma di un patto di consultazione e non più di blocco. «Un patto di blocco lo vedo poco probabile», ha spiegato, «vedo più probabile un patto di consulta- zione dove si discute dei manager e delle strategie ma dove rimane maggiore libertà rispetto alle azioni». Dopo aver precisato di esprimere in il suo pensiero senza aver già discusso con altri soci della prospettiva di un rinnovo del patto di sindacato, il patron di Mediolanum ha aggiunto che «Mediobanca è una bellissima realtà italiana, per cui mantenere un gruppo di soci che in qualche maniera la segue e dà dei suggerimenti potrebbe essere un bene».

Il nodo Generali. Ma le conseguenze della spallata di Bolloré non riguardano solo piazzetta Cuccia. Il nuovo assetto potrebbe infatti riaprire i giochi anche nella compagine azionaria della compagnia assicurativa. Se Mediobanca ha già annunciato da tempo la volontà di assottigliare leggermente la quota nella società triestina, vendendo il 3% circa, altri soci potrebbero pensare di arrotondare le proprie partecipazioni. Secondo il Sole 24 Ore il tema del controllo di Generali potrebbe essere in primo piano nel di- battito tra i soci di Mediobanca, con Unicredit in testa. «È possibile che si formi una sorta di cordata tricolore che saldi la presa su Trieste. Magari guidata da Francesco Gaetano Caltagirone», scrive il quotidiano. La mossa di Bolloré, «è un grande cambiamento, ma non c’è problema», né per Mediobanca che è «una bellissima banca», né per Generali di cui l’istituto è il primo socio, ha spiegato Gabriele Galateri di Genola, presidente della compagnia triestina. Di sicuro, per ora, c’è che il costruttore ed editore romano è in gran movimento. Nei giorni successivi all’annuncio dello scioglimento del patto, Caltagirone ha acquistato a più riprese grossi pacchetti di azioni del Leone, arrivando alla soglia del 4,5%. L’impegno si inserisce in uno shopping in corso da tempo ma che si è intensificato in questo primo scorcio d’autunno e che potrebbe anche continuare.

All’orizzonte ci sono il piano industriale, che il ceo di Generali, Philippe Donnet, sta mettendo a punto per la presentazione il 21 novembre a Milano, e più avanti l’assemblea di aprile a Trieste per il rinnovo del consiglio di amministrazione.

A cura di Filippo Fattore

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