L'Europa di fronte alla sfida della coesione

Per l’Unione europea la Brexit deve rappresentare la migliore occasione per invertire la rotta e mettere al centro della sua strategia la politica, finora appannata dalle necessità di bilancio
[auth href=”http://www.worldexcellence.it/registrazione/” text=”Per leggere l’intero articolo devi essere un utente registrato.
Clicca qui per registrarti gratis adesso o esegui il login per continuare.”]Per gran parte degli analisti, soprattutto continentali, la Brexit è una specie di Caporetto per i  mercati occidentali, e non solo. Per una specie di contrappasso, poi, la Gran Bretagna sarebbe avviata verso una fase di recessione, più o meno lunga e intensa. Ma è proprio così? Se andiamo a fondo e analizziamo le performance dei singoli Paesi è inevitabile concludere che la Brexit è stata solo il detonatore di una crisi che comincia da lontano. Per quanto riguarda la Gran Bretagna il problema è il doppio deficit, e soprattutto il cronico disavanzo delle partite correnti. «L’ultima volta che il Regno Unito ha registrato un avanzo sul suo conto corrente è stato l’anno in cui l’Italia ha vinto la Coppa del Mondo in Spagna… correva l’anno 1982», è il commento di Steen Jakobsen, chief economist della danese Saxo Bank. E non è finita qui. Il Regno Unito (insieme al Giappone) detiene da un po’ di tempo anche il primato della più bassa produttività tra i Paesi del G7. «Anche senza il referendum il Regno Unito avrebbe accusato nei prossimi mesi un forte rallentamento dovuto alla contrazione degli investimenti nel settore privato, che a sua volta determinerà un aumento della disoccupazione e un calo della fiducia dei consumatori», è il commento di James Tomlins, gestore del team obbligazionario di M&G. Per il leader britannico dell’asset management, inoltre, non si annuncia un recupero rapido della crescita Uk, date le tempistiche siderali dei negoziati di uscita dell’Unione europea che continuano a pesare sul clima di mercato, e una sterlina che rimarrà debole a causa sia di una politica fiscale espansiva sia di una politica monetaria accomodante. Aggredire i mercati extra Ue. In questo contesto, secondo Tomlins, le attività cicliche incentrate sul mercato interno che ottengono le loro forniture dall’estero (è il caso, per esempio, delle catene di abbigliamento) sono in assoluto le più vulnerabili. Chi esporta beni e servizi (per esempio i servizi di istruzione) nei mercati extra Ue potrebbe al contrario ottenere un esiguo vantaggio. Ma i potenziali “vincitori” della Brexit non sono immuni da altri rischi. Per esempio, la Aston Martin è certamente un potenziale vincitore in quanto esportatore internazionale basato nel Regno Unito e non dipende dal mercato di massa europeo. «Tuttavia, deve far fronte a determinate sfide in quanto piccolo produttore di nicchia con costrizioni a livello di capitale in un mercato altamente competitivo», dice lo strategist di M&G. Inoltre, come sottolinea ancora Tomlins, la possibilità di azioni dirette della Bank of England nel mercato del credito incombe anche sui mercati obbligazionari, aiutando a sostenere le valutazioni di mercato. Ma, ovviamente, c’è un limite a quello che la politica monetaria può fare a supporto di un’economia in deterioramento. E anche l’approccio meno austero alla politica fiscale avviata dal precedente governo inglese potrebbe far sperare che, «un’eventuale, anche se possibile, recessione britannica si riveli di dimensioni ridotte».

Primato demografico. È quello che pensano alcuni analisti, sebbene appartengano a un partito di minoranza, anche se compatto. Quello che avverrà nel Regno Unito una volta perfezionate le pratiche di divorzio dall’Unione europea, dicono, è maggiore occupazione e un Gdp (gross domestic product, ovvero il Pil) più forte. «I veri motori della crescita sono la produttività, la demografia, la ricerca di base e l’istruzione, accompagnati da poca burocrazia e interventi dello Stato», spiega Jakobsen. Soddisfa il Regno Unito queste condizioni? Nonostante il Paese gestisca un deficit enorme con l’Europa, è a tutt’oggi uno dei pochi modelli di liberismo in circolazione, e inoltre, entro il 2030, sarà il più grande Paese d’Europa per popolazione. Oltre a quelli economici, ci sono i fondamentali politico-strategici, ben più importanti. «Londra ha l’esercito più forte d’Europa, nonché la più grande concentrazione di mercati dei capitali e di talenti al di fuori degli Stati Uniti», dice lo lo strategist di Saxo Bank. «Se i leader europei vogliono un futuro dell’Europa nella Nato senza la partecipazione attiva dei militari del Regno Unito, i mercati dei capitali di Londra e la domanda dei consumatori inglesi, allora fanno bene a continuare a piangere».
Unione nella tempesta. È ovvio che in una prospettiva di medio-lungo termine, il fattore critico è se la Brexit porterà a una maggiore integrazione o alla disintegrazione dell’Ue. In realtà è difficile negare che la tenuta dell’Unione appare oggi decisamente più fragile, e che ai Paesi più in difficoltà nel perseguire i rigidi parametri di Francoforte-Bruxelles (ovvero la cosiddetta “Periferia dell’Europa”), o a quelli più scettici, perché attratti da altre sfere di influenza economica (come i Paesi dell’est Europa), Londra ha fornito un precedente importante al quale appellarsi, anche a fini elettorali. «In realtà, la questione è sul tavolo da molto più tempo, con la Brexit che potrebbe svolgere un ruolo di catalizzatore in tale situazione», dice Hans Bevers, capo economista di Degroof Petercam Am, «Lo scetticismo nei confronti dell’Europa non è un fenomeno recente. I sondaggi rilevano che solo il 51% dei cittadini dell’Unione europea, in dieci Paesi europei esaminati, guarda con favore all’Ue. La gestione di Bruxelles dell’economia e la crisi dei rifugiati sono due importanti elementi di questa disaffezione». E nella tenuta dell’Europa giocherà un ruolo importante il lungo negoziato per il divorzio dalla Gran Bretagna.
Finale Francia-Germania. È opinione corrente però che l’Unione europea cercherà di vendere all’ex partner il messaggio draconiano «o con noi, o senza di noi», ma le differenze profonde tra la Germania e la Francia sul futuro dell’Unione renderanno impossibile tenere a lungo la linea. La Germania vuole infatti un’Europa riformata, che nella sostanza vuole dire con bilanci in ordine, prima di prendere la strada di un più ampio consolidamento, mentre i francesi vogliono saltare tutte le riforme e arrivare subito a un Superstato europeo, per poi procedere a ritroso con le riforme. «Si tratta di una differenza sostanziale, la cui esistenza lascia ampi margini di baratto, per esempio all’Italia, alla quale sarà concesso il sostegno statale alle banche (sostanzialmente perché l’Europa sarà “sotto attacco” se non lo fa), alla Grecia di ottenere un pass gratuito, e alla Francia di espandere il suo deficit, non solo oltre al 3%, ma quasi all’infinito», dice Jakobsen. Alla fine, una specie di remake delle azioni intraprese dopo la crisi del 2009. «Il problema è che siamo saturi di bassi tassi di interesse e allentamento quantitativo: il 75% di tutti i Qe va a mantenere debito esistente. E, dato che questa è la priorità, c’è poco spazio per tornare a crescere», afferma Jakobsen, «L’Europa ha semplicemente spiazzato investimenti e produttività, cercando di guadagnare tempo, invece di sostenere un modello di mercato dove il capitale è allocato al ritorno del margine più alto».
 
Il proprio ruolo nel mondo. Ma i fattori avversi sono ben altri. In primo luogo l’Europa ha ancora a che fare con un difficile dilemma: come posizionarsi nel mondo globalizzato conciliando allo stesso tempo il ruolo di stato-nazione con la democrazia, mentre l’unione monetaria è ancora lungi dall’essere completata, lasciando aperte le sfide alla propria esistenza? «È improbabile che la zona euro sopravviva nel tempo nella sua forma attuale», spiega Tomlins. Il contesto politico europeo a breve termine, non aiuta affatto la normalizzazione. Anzi rende il quadro ancora più instabile: l’Italia terrà un referendum sulla riforma costituzionale nel mese di ottobre, nei Paesi Bassi di terranno nei primi mesi del 2017 le elezioni generali, seguite a stretto giro dalle elezioni presidenziali.
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